Sempre più spesso nel nostro lavoro clinico ci imbattiamo in situazioni che possiamo dire di super lavoro ovvero situazioni in cui l’attività lavorativa assume nella vita delle persone un ruolo eccessivo. Quando il lavoro diventa eccessivo? Perché la quantità di ore dedicate al lavoro e le energie personali impiegate per svolgerlo si ripercuotono negativamente sulle altre sfere della vita come la salute e la famiglia.
Questo fenomeno, ormai descritto da diversi decenni, sta assumendo con il tempo un’importanza sempre maggiore. Negli anni ’60 del secolo scorso in Giappone si introdusse il termine “karoshi” per identificare casi di morte improvvisa correlati a danni cerebrovascolari e cardiovascolari legati in qualche modo allo stress da lavoro. In occidente viene definito con vari termini tra cui “Dipendenza da lavoro” e “Workaholism” ovvero “ubriaco da lavoro”: entrambi si rifanno al modello delle dipendenze da sostanze e da alcol. Nel mondo anglosassone viene anche definito come “The well dressed addiction”, cioè “dipendenza ben vestita” (Robinson 1998) perché ben mascherata. È una dipendenza socialmente accettata, anzi valorizzata, e chi ne soffre, spesso tra i colletti bianchi, copre ruoli significativi all’interno della società.
Perché questo fenomeno è in aumento? In prima battuta potremmo dire perché è figlio dei nostri tempi. E vediamo perché: due sono gli elementi da prendere in considerazione: uno è soggettivo, cioè legato alle caratteristiche personali di chi ne soffre e l’altro è ambientale, cioè favorito dalle condizioni di lavoro.
Partiamo da questo secondo elemento: il contesto, la cultura socio-economica centrata sul consumismo del sistema capitalistico ormai globale sta mutando sempre di più le condizioni di lavoro con ripercussioni sulla vita dei lavoratori, dei loro familiari e della società. Sempre più spesso si rivolgono a noi dirigenti d’azienda con sintomi vari: disturbi d’ansia generalizzata, disturbi del sonno, attacchi di panico, sintomi da burnout, somatizzazioni come gastriti, colon irritabile, reflusso esofageo e ipertensione arteriosa, ansia generalizzata o attacchi di panico o appunto persone dipendenti da lavoro.
Cosa sta succedendo? Dai loro racconti emerge che le condizioni di lavoro sono peggiorate, e di molto. Una persona racconta “Faccio quello che mi dicono loro”. E cosa mi dicono? Ad esempio di fare due viaggi all’estero, in paesi diversi, alla settimana, dalla domenica al mercoledì e poi dal giovedì con rientro il sabato. Questi ritmi si stanno ripercuotendo sulla mia vita affettiva perché non riesco a dedicarmi un tempo sufficiente. E piuttosto che litigare sto pensando di interrompere la relazione. Io ho 56 anni e non vorrei invecchiare da solo: cosa devo fare? A me piace il mio lavoro ma sento che se non faccio come dicono loro rischio di essere licenziato. E a 56 anni cosa posso fare? Vengo da una famiglia povera e lo spettro della povertà mi perseguita. Impiego la mia vita alla ricerca di un benessere economico per fuggire da quella condizione in cui sono vissuto da bambino e mi trovo a fare una vita che mi fa soffrire. Come uscirne?
Ciò che colpisce in prima battuta è che una persona che ha bruciato tutte le tappe della sua carriera all’interno dell’azienda vive in una condizione di precarietà che diviene sempre più stringente. Più sale di livello, più aumentano le responsabilità e più aumenta il lavoro. Si, il lavoro aumenta perché le aziende mettono sempre più in atto strategie di riduzione del personale sempre più spregiudicate con continui accorpamenti di settori e mansioni. Ciò comporta una riduzione dei posti di lavoro che diventano sempre più ambiti, proprio perché sono meno, per cui la rivalità tra colleghi diventa sempre più serrata e spietata. Chi riesce a ottenere quella posizione deve poi difenderla strenuamente perché il suo contratto è a tempo determinato e vincolato al raggiungimento di obiettivi sempre più stringenti.
La pressione dall’alto verso il basso aumenta sempre più. Un altro dirigente di 46 anni di una grande azienda a livello nazionale riporta “sono arrivato a registrare le telefonate con il mio capo perché non mi fido più”, “mi chiedono sempre di più, il mio capo pretende che il fatturato sia sempre in crescita e non ammette giustificazioni”. Come si può vedere c’è un condizionamento dall’esterno che spinge le persone a lavorare sempre di più e in condizioni sempre più stressanti.
Ci troviamo di fronte, ancora una volta, a situazioni in cui lo sviluppo di vere e proprie patologie sono indotte dall’ambiente piuttosto che dalla fragilità delle persone. Spesso queste persone si sentono fragili, pensano che il problema siano loro, perché non sono abbastanza (l’asticella viene gradualmente ma inesorabilmente alzata in nome del profitto). E questo genera ansia perché sentono di essere fragili e vulnerabili creando circoli viziosi.
Possiamo dire che la malattia è il risultato dell’interazione tra individuo ed ambiente piuttosto che un problema di salute di uno o più soggetti. Agendo quindi sull’ambiente, in questo caso lavorativo, sarebbe possibile prevenire molte malattie.
Ma torniamo alla persona che diventa un dipendente da lavoro.
Lo sviluppo di una dipendenza da lavoro poggia una vulnerabilità individuale per cui è più facile che si verifichi in alcune persone piuttosto che in altre in base a determinate caratteristiche. Vediamo perché.
Nel momento in cui si sviluppa una dipendenza tutto si concentra sull’oggetto della dipendenza, può essere la droga, il gioco d’azzardo, il lavoro. Questo fenomeno è legato, in termini neuroscientifici, alle basi comuni delle dipendenze dove un’anomala attivazione di specifici nuclei e vie del nostro sistema nervoso centrale da parte appunto delle sostanze stupefacenti, del gioco e del lavoro porta ad un mal funzionamento dei circuiti della gratificazione.
La dipendenza a livello psicologico, è un rifugio. Perché si ha bisogno di rifugiarsi? In generale per sottrarsi a qualcosa che ci fa soffrire o semplicemente ci dispiace. Si fugge dai problemi quando sentiamo che questi sono difficili o assolutamente insormontabili. Pensiamo ad esempio quando all’interno di una coppia nascono delle difficoltà. Concentrarsi sul lavoro è un modo per distrarsi, per allontanarsi dal partner in una modalità accettabile per entrambi (non viene considerata come diretta conseguenza dei problemi familiari), per ridurre il peso delle frustrazioni familiari cercando di affermarsi sul lavoro; che diventa il proprio regno, lo spazio privato in cui il partner non può entrare. E quella da lavoro apparentemente è un buon rifugio. Un grande lavoratore è stimato dagli altri. Un grande lavoratore può avere un grande ritorno economico, è difficilmente criticabile (è più facile la critica per chi è un fannullone o un pigro).
C’è poi la soddisfazione personale rispetto ai risultati ottenuti, in altre parole è molto gratificante. All’inizio quindi investire sempre più energie nel lavoro non sembra essere un problema. In realtà gradatamente lo diventa perché più una persona investe in un settore della sua vita e più disinveste negli altri. Di conseguenza il partner, che inizialmente era orgoglioso di essere accanto ad un grande lavoratore, e magari anche ad una persona di successo, inizia a soffrire del fatto che l’altro è sempre concentrato sul suo lavoro, a casa appare distratto e a volte anche insofferente perché il tempo passato a casa è diventato tempo sottratto al lavoro; disattento verso i bisogni degli altri, non felice di condividere emozioni e sentimenti perché distratto dai suoi pensieri, il dipendente comincia a sentirsi solo e questo lo spinge a chiudersi ulteriormente rispetto agli altri. Le preoccupazioni per il lavoro cominciano poi a invadere tempo del sonno e le notti possono diventare insonni. Il dipendente da lavoro comincia a sentirsi non compreso dai familiari perché le sue giustificazioni “devo lavorare” non reggono più a fronte del dispiacere in cui vivono gli altri. Questo lo porta ad isolarsi sempre ancora e tuffandosi ancora di più nel suo lavoro. All’ansia si associa tensione, nervosismo. Il partner rischia di diventare il capro espiatorio della situazione su cui addossare le colpe dei problemi relazionali che iniziano a farsi consistenti. E si instaura un circolo vizioso che complica ulteriormente la situazione.
Come affrontare queste situazioni da un punto di vista clinico?
Ciò che è possibile fare dipende dalla disponibilità della persona a mettersi in gioco e a cambiare. Per fare ciò è necessario intraprendere un percorso psicoterapeutico centrato sulla ricerca della verità: verità rispetto al riconoscimento dei problemi che hanno portato a rifugiarsi nella dipendenza per comprenderli ed affrontarli in modo adeguato. Disponibilità al cambiamento, cambiamento che va dal mettere in discussione il proprio modello di visione del mondo per integrarlo con altri fino a valutare percorsi lavorativi alternativi, laddove possibile, per trovare contesti ambientali più umani. Questo l’ultimo aspetto può sembrare scontato ma noi assistiamo sempre più ad atteggiamenti remissivi.